CHIESA PARROCCHIALE DI SAN MICHELE ARCANGELO

 

La chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo è il luogo dove è stato battezzato l’Abate Gioacchino. Una iscrizione del 1906, posta sulla facciata, recita: Sacra haec aedes  erat ante anno 1100 in quo floruit Abb. Joachim Patritius, magno terremoto concussa an 1905 restaurata Ap. Convincentius Granieri an. 1906.

Questa iscrizione secondo Gustavo Valente era ripetuta così all’interno del coro: D.O.M. Tempum hoc longe ante decimum Nostrae Reparationis seculo celestis militie Principes erctum, in quo, regenerationis Sacramento abluti fuere Ioachim Abbas Florensis Sanctitate, Doctrina, et prophetia dono clarus. Oggi non è più visibile e non ne conosciamo la datazione ma sappiamo da Vincenzo Gervaise che, sempre nel coro, sopra l’organo, era rappresentata la figura dell’Abate Gioacchino in rilievo.

E’ a tre navate con pianta basilicale e con un presbiterio a cupola costruito dove prima c’era l’antico abside. Tale ultima modifica è stata eseguita certamente dopo il 1753, anno in cui è stato realizzato il disegno a lato. Il vecchio campanile che doveva essere vicino all’abside era stato già rifatto nel XVII secolo davanti alla facciata.

Al soffitto un dipinto del 1787, opera di Cristoforo Santanna, raffigurante San Michele, e sull’altare una pala raffigurante la Madonna dei Cieli col Bambino in Gloria e i santi Giacomo il Maggiore e Giovanni Battista, di Dirck Hendricks, detto Teodoro D’Enrico il Fiammingo. Si trova, inoltre, nella chiesa un crocifisso ligneo databile intorno al XV secolo.

Al patrimonio della chiesa di San Michele appartiene anche un antico calice di vetro soffiato parzialmente dorato  custodito nella chiesa da tempo immemorabile e che, per essere di vetro, si pensava fosse databile al II o III secolo dopo Cristo. Lo accompagna un documento che reca la seguente trascrizione: Calix iste vitreus – In hac decora Parochiali Celicensi Ecclesia – Tanquam ipsius antiquitatis monumentum – servatur eius di grippe Calycibus in quarto jam – Nostre reparate salutis, seculo Romana Ecclesia tunc in libertate permanenti – In sacris faciendis – uti mos fuit.

Secondo un’analisi compiuta da Giorgio Leone pare si tratta di un calice databile intorno alla metà del XVI secolo. Particolare interessante è il fatto che l’analisi afferma che il calice “ricevette la destinazione liturgica”. Non si tratta, quindi, di qualcos’altro né di un calice mai utilizzato.

I calici di vetro furono permessi da san Zeffirino o Zefirino, papa dal 198 (o 199 per alcuni) al 217 d.c. Siamo nell’epoca precostantiniana e Zefirino sosteneva la tendenza cristologia del monarchismo modalista contro quella dell’adozionismo o monarchismo dinamista.

Il calice di vetro fu immediatamente proibito dal papa successivo Urbano I. Se dunque fosse proprio di quel periodo esso sarebbe indubbiamente di un valore storico-artistico inestimabile. Se invece fosse di un’epoca successiva, o anche del XVI secolo, rimarrebbe il mistero legato ad un calice di vetro prodotto, usato e conservato gelosamente in un’epoca nella quale non era permesso.

 

Il culto di San Michele

Il culto dell’Arcangelo Michele, dalla Frigia, in Oriente, dove ebbe forse il più antico e celebre santuario, approdò successivamente a Costantinopoli dove conobbe una grande diffusione installandosi in luoghi aspri e impervi. In Italia il santuario più antico è, probabilmente, quello di Monte Sant’Angelo, a partire almeno dal settimo secolo, si sposta in tutte le direzioni. Alla Puglia era stato portato da Costantinopoli e proprio i bizantini furono i principali diffusori del culto insieme ai Longobardi che videro nell’angelo gli stessi attributi del dio pagano Wodan.

A Celico, probabilmente, prima ancora dei bizantini, il culto era già praticato fra gli ebrei che, convertitisi poi al cristianesimo, continuarono a venerarlo.

 Disegno della chiesa di San MicheleSoffitto con affrescoPala dell'altareCalice di vetro4 - 4<>

 

Celebrazione di Gioacchino in San Michele nell'anno 1200

 

Alla vigilia della sua morte, sulla soglia del nuovo secolo, forse nella stessa città di Celico nei pressi di Cosenza ai piedi dell'Appennino calabro, in un antico oratorio o chiesetta di stile bizantino-romanico, Gioacchino, oramai settantenne, predicava un giorno sul Terzo Testamento e sul prossimo avvento dello Spirito Santo. Nella chiesetta, sotto le basse arcate della volta, per le nubi accumulatesi in cielo, faceva buio come di notte.

 

“Nel primo Testamento, in quello del Padre è la notte; nel secondo in quello del Figlio, è il mattino; nel terzo, in quello dello Spirito è il giorno”.

 

Udendo Gioacchino, nell’oscurità del giorno, parlare della luce dell’eterno Giorno, i fedeli volevano svegliarsi a quella luce  e non potevano, così come i morti, dormenti nel sepolcro, vedono forse in sogno il sole della vita eterna e vogliono svegliarsi e non possono.

Ad un tratto il sole, passando attraverso la cortina delle nubi, inondò la chiesetta di luce accecante. Troncando a mezzo la parola, Gioacchino si voltò verso la finestra da cui piovevano i raggi, si fece il segno della croce e scese dall'ambone. In silenzio la folla gli fece largo e, quando egli uscì dalla chiesa, lo seguì quasi sapesse dove sarebbe stata condotta. I volti erano immobili, gli occhi spalancati: con la stessa forza con cui la luna attrae i sonnambuli, la folla era attratta dal sole. Attraversò in silenzio le vie della piccola città ingrossando via via e uscì nei campi, donde si scorgevano in lontananza biancheggiare, sullo sfondo scuro delle nubi che dileguavano, le vette nevose della Sila. Gioacchino, sempre in silenzio, salì su uno di quei cumuli funebri, così numerosi nella campagna calabrese, in cui riposano i padri vichinghi normanni, "cigni selvaggi del Nord", e voltosi con la faccia al sole, tese le braccia e con tremula voce innalzò un canto appena percepibile nella campagna aperta:

 

Veni, Creator Spiritus!

 

Caduta in ginocchio, con i visi rivolti al sole e le braccia alzati, la folla ripeté

 

Veni, Creator Spiritus!

 

Con voce così potente che parve, insieme con la folla, pregassero non solo gli uomini tutti, ma tutte le creature "gementi".

............ Così Gioacchino compì alla vigilia della morte ciò che aveva fatto durante tutta la sua vita: condusse gli uomini fuori dalla Chiesa piccola nella Grande, dall’oscura in quella luminosa, dalla servile nella libera.

“ Spirito santo, vieni!” aveva pregato tutta la vita, e la sua preghiera fu esaudita.

....... Il figlio spirituale di Gioacchino è San Francesco. “Che cosa è il Terzo Regno, il Regno dello Spirito?”,

domanda Gioacchino; Francesco darà la risposta.

 

TRE SANTI (titolo originale OT CHRISTA’ DI NAS) di DIMITRI MEREJKOWSKI,  Ed. Mondatori, Milano, Collezione I quaderni della Medusa, Anno 1936. L'autore è più propriamente conosciuto come Dmitrij Sergeevic Merezkovskij (1865-1941).

 

 

Bibliografia utilizzata

 

  • Gustavo Valente, Chiese conventi confraternite e congreghe di Celico e Minnitu, Edizioni Frama Sud, Chiaravalle Centrale (CZ), 1979.
  • V. Gervaise, Histoire de l’abbè Joachim, surnommé le prophéte.. Paris, Giffart, 1745, traduzione V. Napolillo, Edizioni Orizzonti Meridionali, Cosenza, 1992,
  • Conferenza Episcopale Calabra, Pange lingua, l’Eucaristia in Calabria, Storia Devozione Arte, a cura di Giorgio Leone, Abramo Editore, Catanzaro, 2002, p. 590.
  • Francesco Scarpelli, Celico Città Celeste, Edizioni Pubblisfera, San Giovanni in Fiore (CS), 2008.

 

PAGINA A CURA DELL’ASSOCIAZIONE CULTURALE ABATE GIOACCHINO (CELICO)

ELABORAZIONE GRAFICA e WEBDESIGN A CURA DI GIUSEPPE SCARPELLI